Da “Civiltà  della tavola a Modena” di Giorgio Maioli, Ed.Anniballi Bologna, 1985
“Tutti bevono del vino in questo paese, le donne e i bambini, come gli uomini, e quantunque siano sobrii e non si possa loro osservare nulla su questo argomento, tuttavia non ne possono fare senza”. Così scriveva, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, uno dei più precisi “cronisti da viaggio” di quell’epoca, il domenicano francese Jean Baptiste Labat, nel suo “Viaggio” dato alle stampe nel 1731 ad Amsterdam. Soggiornando in Italia, girando per il lungo e per il largo, sostò anche a Modena. Quindi il riferimento alla propensione “vinosa” potrebbe essere rivolto anche ai modenesi i quali proprio a cavallo di questi due secoli dimostravano una aperta predilezione per il vino.
D’altronde Labat, non ancora intriso di sciovinismo francese, dovette riconoscere che a Modena i “…vini sono eccellenti, le vigne producono molto e non vi è alcuna imposta che lo renda di caro prezzo…». Si beveva, dunque, e si beveva molto e bene. Logica risultanza, quindi, il florilegio delle osterie, numerose in città  ma anche in provincia, così come in montagna e nella “bassa”.
Neppure Tassoni, nella “Secchia rapita”, si sottrasse al fascino dell’osteria e volle anzi precisarne i contorni nel Canto II, quando il poeta annuncia l’arrivo a Modena di Marte, Bacco e Venere i quali, dopo una passeggiata per la città  , “…ben considerato il sito e l’arte / Del guerreggiare e il cor di quella gente, / A una osteria si trassero in disparte / Ch’avea un Trebbian di Dio dolce e rodente / E con capponi e starne e quel buon vino / Cenaron tutti e tre da Paladino…».
Nella seconda metà  del Settecento, l’abate Giovanbattista Vicini, nel suo “Baccanale sui vini modenesi” precisa che le uve coltivate nell’agro modenese, erano oltre settanta. Non ci si meravigli, dunque, se con la produzione di vino, nascevano botteghe che, al pari delle spezierie e delle beccherie o delle “lardariole», offrivano il vino al banco o alla tavola.
Le più antiche osterie, come ricorda uno degli storici più puntuali della vita modenese, lo scrittore Ugo Preti, nel bellissimo volume “Lambrusco & C”, i primi “luoghi per bere” avevano nomi che poi sarebbero diventati un classico nel panorama delle osterie: la “Campana”, l’osteria del “Gambero”, del “Montone”, del “Cappello”, del “Biscione”, del “Moro”, del “Pozzo” e “L’osteria del Leone” in Canal Grande vicino a palazzo Rangoni.
Nel “Libro del vino”, conservato all’Archivio di Stato di Modena, alcune registrazioni costituiscono, come rileva Ugo Preti, una testimonianza, sia pure in parte illeggibile, della presenza di osterie verso la metà  del Cinquecento e un lungo elenco di “betoleri”, ossia di coloro che gestivano “bettole” e che elargivano coppe di vino a bassissimo costo.
“Erano numerose le osterie prima del Seicento – dice Ugo Preti – elencarle tutte sarebbe un problema. Ma sono interessanti quelle che acquistavano una fama precisa, o perchà © venivano frequentate dai tedeschi, come “l’osteria del Porco”, oppure dai napoletani, come l’osteria “All’amore” e “La spada”, quest’ultima prediletta dal duca d’Amalfi. Infine il “Rampino”, dove si incontravano per bere soltanto gli spagnoli. Le altre osterie che ebbero un discreto successo e che attraversarono il tempo senza subire alterazione di nome e di fama, furono “La Posta”, “Il Cavalletto”, che si ritrova anche nell’Ottocento, poi “La Luna”, “Il Pavone”, “S. Giorgio”, l’osteria del “Diavolo Rosso” vicina alla via dei Tre Re, e infine la “Lucchina”, dove si riunivano i mercanti lucchesi che Obizzo III d’Este aveva invitato a Modena già  nella metà  del Trecento, per impiantarvi un mercato della seta.
Col passare del tempo, il vino veniva prodotto in maggior quantità  e così aumentava anche il numero delle osterie. Ma non solo in città  , anche in provincia, dalla montagna alla pianura, era un fiorire di locali in cui si vendeva il vino e si preparava alla meglio e alla svelta, anche un piatto per appagare l’appetito di viaggiatori e di coloro che, non sazi della tavola di famiglia, trovavano nell’osteria il luogo per riempire lo stomaco e calmare la sete.
Nel Settecento, ad esempio, erano numerosi i bandi che venivano affissi agli angoli delle strade, nei punti di maggior traffico, o sugli alberi che crescevano negli incroci delle strade di campagna: in genere, questi bandi informavano sulle regole che si dovevano osservare nelle osterie per non contravvenire la legge.
L’osteria, insomma, era il luogo di perdizione per antonomasia, il posto che i perbenisti dovevano evitare accuratamente, per non finire ebbri di vino.
A Mirandola, ad esempio, una delle “notificazioni” più frequenti riguardava proprio gli osti, i “bettoglieri” e tutti coloro che vendevano il vino al minuto. Ed era rivolta, sempre in nome di “S.A. Serenissima Padrone…” alle molte persone che “…invece d’attendere all’esercizio delle loro Professioni, al governo delle Famiglie, o applicarsi a qualche onesto trattenimento, consumino il giorno, e la notte ancora nelle Osterie, e Bettole a crapolare, ed ubbriacarsi, da che ne derivano poi molti mali”.
Quindi seguivano lunghi elenchi di provvedimenti, legati all’andamento stagionale del Carnevale, della Quaresima e dei mesi estivi, in cui si vietava di distribuire il vino “…dal primo dell’Anno a tutto dopo Canovale suonate le ore quattro di notte…”, “…dal primo di Quaresima a tutto Aprile dopo le tre e da San Martino per tutto l’anno dopo le quattro ore della notte…». Chi contravveniva non solo doveva sborsare 25 scudi d’oro come ammenda, ma doveva sopportare anche il supplizio di tre tratti di corda. Inoltre gli osti dovevano registrare “…con li dovuti Bollettini”, di aver dato da bere a “…Persona alcuna, così Maschio, come Femmina, tanto Suddita, che Forestiera…”. Insomma, quello dell’oste stava diventando un mestiere difficile.
Nella metà  del Settecento, per dare un calmiere al proliferare delle osterie soprattutto in provincia, numerosi furono gli avvisi emessi dalla Casa estense. Sotto Francesco III, ad esempio, durante gli anni di pace, di lavoro, non soltanto furono eseguiti lavori di ampliamento dei palazzi ma si lavorò alla costruzione del grande Ospedale di Sant’Agostino a Modena e in città  fu un fervore di iniziative e anche le osterie si moltiplicavano.
Naturalmente questo fervore ebbe una ripercussione anche in provincia: in montagna, forse perchà © coloro che gestivano gli alloggi-osterie esistenti, una decina in tutto lungo la strada “dalla Lama a San Pellegrino”, si erano lagnati della concorrenza che facevano coloro che aprivano osterie abusive, veniva vietata “…l’introduzione di ulteriori Osterie, Magazzeni, o Bettole nel tratto medesimo di detta Strada…”.
Le dieci osterie in servizio in quell’epoca erano l’osteria dei “Fratelli Carlotti” sopra la Serra di Lama, del Giardinello a Mocogno, la “Zignuola” al Sasso, “L’osteria del Monte” a Barigazzo, del “Mellazzo”, della “Fabbrica” a S. Andrea prima di Pievepelago, l’osteria di Sassotignolo, la “Nuova” alla Piallazza, delle “Fontanine”, e infine l’osteria di “S. Pellegrino”.
Così, di osteria in osteria, i bevitori modenesi passavano il tempo e c’erano osterie in città  che si emancipavano e diventavano locande e trattorie e, più avanti negli anni, verso l’Unità  d’Italia, anche alberghi.
Sotto il ducato di Francesco IV, il penultimo Estense a governare Modena, le osterie si erano quadruplicate in città  e anche in provincia. C’erano anche i caffè, ma erano frequentati dalla borghesia e dalla nobiltà  , mentre le osterie restavano il punto d’incontro del popolo, degli artigiani e degli operai e infine dei poveri. Nei primi anni dell’Ottocento, le osterie più frequentate, anche per la scelta dei vini, erano “l’Elefante”, quella del “Leopardo”, della “Scimmia”, del “Cavalletto” e naturalmente “dell’Aquila d’Oro” oppure “Aquila Nera”, nomi che non mancano mai nella grande mappa delle mescite di vino. Inoltre, c’erano osterie come la “Barchetta”, le “Diciotto Colonne” o la “Campana”, che sono sopravvissute nel tempo.
Quando Francesco V dovette fare fagotto e lasciare Modena per sempre, in città  c’era aria di festa, i modenesi avevano una gran voglia di divertirsi e le osterie fecero affari d’oro: dalla quantità  dei litri di vino che si vendevano nelle osterie, si toccava il polso alla città  , si intuiva se era un periodo ricco o di carestia, se per le strade c’era allegria oppure se si incontravano visi lunghi e niente sorrisi.
Quando a Modena si cominciava a gridare “Viva l’Italia!” e le osterie e le locande erano piene zeppe di gente, venne anche il momento di fare i conti: il 28 Agosto 1860 si fece infatti il primo censimento dei luoghi dove si poteva consumare il vino dentro le mura della città  .
Ugo Preti, rovistando nei risvolti più nascosti dell’Archivio di Stato, ha messo le mani sulla “Distinta numerica degli esercizi a norma della risultanza dell’Elenco Generale dei Commercianti di Modena”: “In quell’anno, quando finiva un’epoca e ne cominciava un’altra – racconta nel suo libro sul Lambrusco – le osterie erano in città  quasi centottanta, mentre altre trentotto esercitavano nel circondario. Quindi duecentosedici punti di vendita. In più c’erano ben ottantasette liquorerie che vendevano anche vino sfuso e in bottiglia. In totale, quindi, oltre trecento rivendite, una grossa cifra, se si deve considerare che a metà  del secolo scorso l’osteria era l’unico punto di ritrovo e passatempo. Basta pensare che in provincia, in quanto a numero, le osterie non scherzavano: oltre cinquanta a Sassuolo, venticinque a Vignola, quarantasette a Mirandola, più di una cinquantina soltanto a Pavullo e quasi una quarantina in territorio di Montese. Carpi, poi, batteva tutti i paesi con oltre settanta osterie!”
Difficile affermare quale delle osterie carpigiane fosse la più famosa o la più frequentata. Carpi, in proposito, aveva una solida tradizione sia nel campo delle osterie, che delle locande. Probabilmente la più genuina, la più caratteristica era l’osteria “Da Cimbro”, in Borgo Fortino, il simbolo della vecchia Carpi, della solidità  pragmatica rappresentata dai grossi tavoloni di noce con le stufe di terracotta al centro delle sale e il soffitto coi travetti di legno da cui pendevano cipolle, agli e peperoni, oltre naturalmente alle vecchie carte moschicide di colla gialla. I muri erano intrisi di fumo, entrando sembrava di fumare dieci “Popolari” in una sola boccata, tanto stagnava l’odore di sigarette da quattro soldi. Però, il vino di Cimbro era sinonimo di genuinità  : le bottiglie venivano preparate in famiglia e i più famosi bevitori, e anche gli intenditori più sperimentati, erano clienti assidui di Cimbro.
Un’altra osteria per gli amanti delle “fuiette”, il classico bicchiere di vino carpigiano, era dal “Bulgneis”, un locale buio, forse anche maleodorante, con tavoli che grondavano vino tanto da non reggersi neppure sulle gambe di legno, sedie impagliate, per usare un termine benevolo. Difficilmente, secondo quanto raccontano i cronisti del tempo, si respirava aria ossigenata. Il gestore era un bolognese capitato a Carpi e convivente con una prosperosa carpigiana che i clienti chiamavano anch’essa la “bolognese”. La tipica coppia di osti, insomma.
La più conosciuta si dice fosse l’osteria “Del Botteghino” sulla strada che da Carpi porta a Modena, punto fermo per birocciai e per i cavalli, la classica osteria davanti alla quale i cavalli si fermavano da soli.
Insomma, Carpi, in quanto a osterie, rischiava di prendere la mano a Modena, sia pure con le dovute proporzioni, anche perche l’Ottocento fu il secolo d’oro per le osterie modenesi. “Era la classica osteria dove si beveva e si faceva la partita a carte – ricorda ancora Ugo Preti – E in certe ore della giornata, dopo mezzogiorno e la sera l’ostessa o la cuoca usciva dalla cucina familiare e diceva: “Ho fatto un po’ di gnocco fritto! Chi ne vuole?” oppure: “Ho cotto un paio di cotechini!” e ancora: “Ci sono rimasti dei fagioli con le cotiche». I clienti non mancavano, perchà © un piatto, sia pure unico, di gnocco fritto o di fagioli, era un pretesto per continuare a bere.
Spesso, a metà  pomeriggio, dal retrobottega delle osterie più frequentate, uscivano, come dal cappello a cilindro di un mago, gustosissime frittelle di baccalà  , che venivano spazzate via ancor prima di toccare le tavole e il cui risultato era poi di fare bere molto vino. E dire che il vino, allora, non costava poco. Prendiamo il Lambrusco, ad esempio: c’è la testimonianza di un’antica bottiglieria modenese che poi è diventata trattoria, con tanto di locandina pubblicitaria, quella di Giuseppe Giusti, in contrada della Posta Vecchia. Una minestra in brodo costava 24 centesimi, asciutta 30 centesimi, una porzione di secondo sempre 30 centesimi, ma una bottiglia di Lambrusco costava anche 72 centesimi!
Nell’Ottocento, dunque, aumentarono notevolmente le osterie subito fuori dalle mura, ma anche in città  , nei vicoli, nelle strade, nelle piazze, le osterie quasi si toccavano le une con le altre. I bevitori, i frequentatori assidui di questo autentico periodo d’oro dell’osteria modenese, avevano un ampio panorama di scelta. “Certo, è stato il momento in cui l’osteria a Modena acquistava una propria fisionomia – precisa Ugo Preti – tanto che i caffè, i famosi caffè come “Il Nazionale”, il “Goldoni”, “Il Commercio” o “Il Tampelini” e “Il Cavour” tutti concentrati a non più di cento metri dalla Ghirlandina, erano considerati alla fine soltanto delle osterie raffinate, dove il prodotto di maggior consumo era sempre il vino ma non si serviva nulla da mangiare. Andare all’osteria, in quegli anni, doveva essere una musica: gli incontri, i bicchieri che tintinnavano gli uni contro gli altri, i personaggi che si muovevano sulla scena un po’ fumosa e ognuno aveva una propria caratteristica, d’altronde come gli osti.”
L’atmosfera che avvolgeva queste osterie era raccolta, e a volte era chiassosa e i nomi che distinguevano un locale dall’altro, avevano un’estrazione ben definita. Ugo Preti ricorda, ad esempio, che numerose osterie hanno dato una svolta ai termini dialettali, rimasti poi inalterati nel tempo, come “La Puva”, che significa “girandola”, “bambola” oppure intontimento, dato naturalmente dall’eccessivo numero di bicchieri bevuti. O come “La Sà ©mia”, che in termine gergale significa intelletto offuscato dall’alcool. Infine “La scà ³fia”, la cuffia, un’osteria che inalberava l’insegna di una cuffia da neonato e che rappresentava abbastanza efficacemente ciò che provava chi era in preda ai fumi dell’alcool. Altre due famose osterie ottocentesche, che ebbero il merito di resistere anche nei primi anni del Novecento, furono “Il Bersagliere” e “L’Artigliere”.
A proposito dell'”Artigliere”, Ugo Preti ha pubblicato una testimonianza tra le più vive della storia delle osterie modenesi. Nel 1860, questa osteria era gestita da Cleto e Lucia Chiarli e proprio per rispondere alla domanda di vino, sempre in aumento, Cleto Chiarli decise di cominciare a vinificare l’uva in una cantina che egli affittò nella piazza della Pomposa, di fronte all’antica chiesa. “Fu così che nacque la storia dei Chiarli – precisa Ugo Preti – Era così genuina la qualità  del suo vino che in poco tempo la cantina diventò famosa a Modena ed egli dovette abbandonare l’osteria e allargare l’attività  di produzione del vino. Oggi, quella cantina è diventata una grande azienda che non dimentica tuttavia le sue origini.”
Bastava, per il successo, che nella seconda metà  dell’Ottocento, uno dei più famosi bevitori di Modena, il cui soprannome era “Sgrafiein”, un ladruncolo incallito, si trovasse, tanto per non perdere l’abitudine, in carcere e lanciasse dalla finestra un messaggio che diceva: “A Cleto Chiarli, sono rinchiuso nella Torre dell’Orologio, sono circondato dalle acque, se non mandate rinforzi sono perduto! Generale Sgrafiein”.
“Sgrafiein” altro non era che uno dei tanti “soldati di Chiarli”, così come venivano chiamati i clienti della sua osteria – aggiunge Preti – Chi beveva di più, aumentava di grado. E Sgrafiein era considerato addirittura un generale! Durante la guerra ’15-’18, a Modena circolava addirittura questa battuta: “Se mettono in linea il reggimento di Chiarli, si vince la guerra in tre giornate!” Significa che i clienti di Cleto Chiarli ormai avevano raggiunto una ragguardevole cifra!
“L’Elefante”, “Dal Pandor”, “Al Pisador” famoso ritrovo degli artisti di passaggio a Modena, “l’osteria Toscana” ritrovo preferito degli studenti, l’osteria “dei Becchini” che si trovava esattamente vicino alla camera mortuaria dell’Ospedale di Sant’Agostino, “da Barbulein”, classica osteria dell’Ottocento con grandi locali e lunghi tavoloni di legno massiccio, furono le più famose osterie che superarono la fine del secolo e si affacciarono sul Novecento. Ma, alla fine, scomparvero anch’esse, assieme ai numerosi altri locali, più o meno frequentati, più o meno famosi, dove si vendeva vino più o meno buono. Ma soprattutto Lambrusco.
Finiva un’epoca, l’epoca dell’osteria. Era come se sprofondasse lentamente una parte della città  nelle sabbie dei ricordi.
E oggi, che cosa è rimasto di questo esercito di bevitori? E di questi autentici templi del vino? Nulla. Tutto è scomparso.
Ugo Preti parla addirittura di “morte dell’osteria”. Poi dice: “Era una filosofia, un modo di vita. Sono scomparse completamente in città  , forse è rimasta qualche osteria sopravvissuta in provincia, soprattutto in montagna, certamente nei luoghi dove non esiste altro e dove gli abitanti, i paesani, si ritrovano ancora per bere insieme un bicchiere. Io credo che la morte dell’osteria sia il risultato dell’evoluzione dei costumi, della trasformazione della ristorazione. Sono convinto che il principio della fine dell’osteria sia cominciato quando l’oste si è trovato fra le mani la bottiglia di vino con l’etichetta, non era più un vino che aveva il sapore della cantina familiare e ogni oste era anche il produttore del proprio vino e doveva farlo buono per forza, altrimenti i clienti non si fermavano. Poi ad ogni stagione c’era sempre la curiosità  di assaggiare il vino nuovo nell’una o nell’altra osteria, tanto per classificare subito la produzione dell’annata. Insomma, era tutto un mondo che ruotava intorno all’osteria, coi suoi personaggi, con gli aneddoti che si creavano, con le macchiette che davano un colore all’ambiente. Poi, c’era il gusto di bere in compagnia, dimensione che abbiamo perduta oggi.”
Tuttavia c’è un raggio di speranza: la riscoperta dell’osteria, la sua rivisitazione, l’ansia di ritrovare tempi perduti, di afferrare sensazioni che per i giovani sono un’esperienza nuova. “Sì, la riscoperta – continua Ugo Preti – potrebbe resuscitare l’osteria. Ma non quella di un tempo, dove si faceva uno spuntino sostanzioso e si beveva diluendo la giornata: oggi si mangia troppo in fretta, non c’è più posto per la sosta, non c’è tempo per fermarsi. Be’, alcune vecchie osterie forse ci sono ancora, anche se sono state lustrate, ripulite e si sono trasformate in trattorie. Come da “Joffa”, ad esempio, un ambiente un poco snob, che si concede alla ricercatezza, ai modi sofisticati. C’è la vecchia struttura sotto la crosta, la superficie che copre l’antica pà  tina di vecchio ambiente unto e bisunto. Si, si mangia ancora a braccetto con la tradizione, ma si respira un’aria diversa.”
Un “requiem”, dunque per l’osteria modenese. Un momento di raccoglimento per riascoltare rumori ormai attutiti, ovattati e spenti come sono i rumori e gli odori che appartengono al passato. E immagini sbiadite, come quella di Giosuè Carducci che lascia Bologna una volta al mese – come ricorda Franco Mantovi in un suo delizioso libretto sui gioielli dell’enogastronomia modenese – per venire a Modena a bere Lambrusco, all’osteria di Grosoli in via Canalino, e innaffiare abbondantemente, com’era sua abitudine, alcune fette di zampone.
4 risposte
Grazie, grazie, grazie! 😉
Curioso ed interessante l'articolo….
Un bell'articolo, con una dettagliata e interessante carrellata!
A proposito di osterie, mio padre ieri mi raccontava della pizzaeria Storchi, lì una volta c'era un'osteria, che chiamavano “La sedia elettrica”. Questo perchè mentre nelle altre si vendeva il lambrusco qui andavano a Chianti, così chi ne beveva molto, quando si alzava era ubriaco più del solito (a pari quantità col lambrusco) e aveva la sensazione di essere stato sulla sedia elettrica….. successivamente l'osteria divenne prima birreria (o solo ristorante) e poi l'attuale pizzeria.