Recensione su Al Bacco Venezia
visitato da Gerry il 02.10.2010

Recensione su
Al Bacco
Venezia

Visitato il 02.10.2010
Consigliatissimo!!
Scritta da Gerry
Servizio: Ristorante

Spesa a testa: 37.00
Coperti: 1
2 commenti
Ancora a Venezia. Abbiamo prenotato “Al Bacco” con qualche giorno d'anticipo, per la cena di sabato 2 ottobre. Sappiamo che i posti a sedere sono pochini, una trentina, o giù di lì. A pranzo ci siamo fatti un poco di fegato alla veneziana, senza gioie particolari, e, per la sera, dagli orti sapevamo di passare alla laguna e al mare. Il posto è una osteria che esiste, probabilmente, da tanti anni. La prima volta che ci sono capitato risale alla fine degli anni ottanta; tutt'al più, se la memoria mi tradisce, andiamo all'inizio degli anni novanta. Sono vent'anni, circa. E, la prima volta, aveva l'aria d'essere la prima volta per me e mia moglie, ma non per l'oste, che è sempre quello, anche oggi. Da allora, altre cinque volte o sei volte, direi una ogni due o tre anni, senza regole precise, secondo il caso. A dire il vero, lo trovo un poco invecchiato dall'ultima volta; ingrigito e immalinconito, potrei dire maturato. Si, diciamo così, mi piace di più! L'osteria è fuori mano, per i turisti. Oltre il ghetto, lungo le fondamenta de le capuzine e, quindi, di fronte a un lungo canale. L'ingresso angusto e dimesso da su una sala più lunga che larga, decisamente più lunga. Alla destra il bancone del bar, senza tempo, con uno specchio un poco liso ed immaginette raccolte negli anni. I tavoli si incolonnano sulla sinistra, addossati alla parete. Tavoli e sedie di legno solido, pesante. Vorrei poter dire “per gomiti stanchi” e per “natiche flosce”. Vent'anni fa, gli avventori erano tutti veneziani. Non ricordo come capitammo lì. Forse, dopo una visita al ghetto, da turisti sfaccendati e di gamba buona. In giro senza meta, a respirare l'aria di una città. Con lo strano gusto per le scoperte non volute, da esploratori fortunati e casuali. Oggi la chiamano serendipità, visto che non potevamo star lì senza catalogare le emozioni della casualità, della quotidiana ricerca delle piccole grandi cose della vita. Va beh! Stiamo andando lontano come, sempre più spesso, mi accade. E non sempre so da dove son partito e dove andrò a finire. Oggi troviamo qualche turista. Egoisticamente, mi pare e spero che prevalgano ancora i veneziani. Qui mi paiono migliori, più ospitali, senza che, tuttavia, qualcuno abbia mai intavolato il benché minimo colloquio con noi. Siamo in sette: cinque modenesi e due romagnoli. Informazione del tutto gratuita: ricordiamocene al momento del conto. Quattro risotti di pesce, in bianco, buoni e ben conditi, di giusta cottura. Ma non eccezionali. Due tagliolini al granchio, discreti, con un eccesso di sale. Poi, assaggi di polpo alla veneziana, cioè col “nero”, di baccalà alla vicentina e di frittura mista. Del polpo non posso dire che bene, anzi, benissimo. Anche gli altri, un coro! Probabilmente, il reciproco pudore ci ha impedito di accanirci sul piatto reiterandone l'ordine. Lo dico perché più tardi, a cose fatte, sgambettando verso la stazione e verso il vaporetto che ci avrebbe riportati ai nostri letti, in Rialto, commentando la cena, alla citazione del polpo, in perfetta sincronia si alzavano gli occhi verso l'alto e ci sfuggiva un lieve sospiro. Dunque, ottimo. Nell'ordine di apprezzamento, la frittura mista e, poi, ultimo ma sempre più che apprezzabile, il baccalà alla vicentina, il cui unico neo, nella nostra valutazione collettiva, stava in una cottura non precisa, un poco “corta”. Il fritto era come ce lo ricordavamo: variegato, profumato e leggero. Leggero al palato e allo stomaco, senza fastidiosi problemi di digestione. Di contorno, qualche piattino di patate lessate e condite con una salsina di capperi. Sono state finite prima che terminassimo gli altri piatti. Per cui, che dire? Non è stato un sacrificio. Acqua, vino bianco leggermente frizzante, della casa, non particolarmente di carattere ma, comunque, all'altezza del compito. Doveva accompagnare il “pesce”, e così ha fatto. Direi che ne abbiamo fatto fuori un tre litri, o giù di lì. Sette caffè e un paio di ammazzacaffè hanno completato la serata al tavolo. Pieni, ma leggeri, ci siamo avviati a pagare e, come ricordavamo io e mia moglie, il conto non ha riservato sorprese, anzi! Dividendo la spesa per sette, abbiamo speso poco meno di 37 euro a cranio. A bocca la divisione avrebbe dovuto essere meno matematica, ma l'amicizia e la buona educazione ci inducono a tacere le osservazioni a chi si strafoga, soprattutto quando non è a danno degli altri. Io, tra l'altro, rischio sempre. Voto: quattro cappelli! La mia memoria mi portava verso una valutazione ancora più alta, ma, siccome, in teoria, al ristorante si gratifica più lo stomaco che la mente (ma siamo certi dell'affermazione?), fermiamoci a quattro, pur essendo questo uno dei locali in cui ritorno sempre con estremo piacere. Uno dei pochi.

2 commenti

Reginalulu
07/10/2010
E' un bellissimo racconto Gerry. Vi si intrecciano emozioni, malinconie e buona tavola. Io credo che ognuno vada a tavola con un po' di mente e un po' di cuore. Lo stomaco, quello, c'è quasi sempre.
Gerry
07/10/2010
Ciao Lulù, mente e cuore. Sì, penso anch'io che ci sia dell'uno e dell'altro, quando il cibo non sia l'obbligo quotidiano. Anche se è una condizione fortunata, di cui parlare con pudore, mi incuriosisce sempre capire cosa si aspettino i commensali, quanta mente e quanto cuore, quale mente e quale cuore,...oltre, ovviamente, il mangiar bene!
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