Pignoletto dei Colli Bolognesi

Pignoletto dei Colli Bolognesi

CENNI STORICI
Come spesso accade, i territori del Bel Paese vocati alla coltivazione della vite vantano anche tradizioni e storie secolari in cui il vino e la vite sono comunque fonte di ricchezza e magari diventano oggetto di contesa, di scambio, e talvolta di concessione di privilegi. Non fa eccezione l’area dei Colli Bolognesi.
Al di là  di alcune incerte notizie fatte risalire al solito Plinio e al suo “Naturalis Historia” e che collocherebbero la coltivazione della vite nell’area (ed in particolare proprio del pignoletto) già  in epoca romana, in realtà  sembra che una delle prime testimonianze certe di tale attività  sia riconducibile solo al periodo alto-medievale, quando, nell’anno 973, il vescovo di Bologna Alberto concedeva al vescovo di Parma, insieme alla Abbazia di Monteveglio, sui colli ad ovest di Bologna, trenta tornature di vigneti (la tornatura era un’antica misura agraria di superficie corrispondente a circa duemila/tremila metri quadrati, a seconda delle diverse convenzioni regionali).
Qualche decennio più tardi, nel 1033, era la volta dell’abbazia di Nonantola (nord-ovest di Bologna) a concedere il diritto reale d’uso e di fruizione del ricavato (enfiteusi) su due fondi coltivati a vite, imponendo un canone annuale, da pagarsi nel mese di settembre, pari a otto moggi di “vini boni e di mosti” (il moggio era un’antica misura di capacità  corrispondente anche in questo caso a diversi valori a seconda della regione in cui veniva usato).
Arriviamo quindi al Cinquento, quando il celebre naturalista e medico marchigiano Andrea Bacci nel suo “De naturali vinonurum historia”, trattato pubblicato nel 1596 a Roma e che spesso abbiamo avuto occasione di citare, nel libro V dell’opera, dedicato ai vini delle varie regioni d’Italia, consacrava un intero capitolo proprio ai vini prodotti nella zona del bolognese (“Bononiae vini”), ottenuti da vigne poste in zone soleggiate dei colli (“in apricis collibus”) alle pendici degli Appennini (“sub Appennini radicibus”).
Nel secolo successivo e più precisamente nel 1654, il bolognese marchese Vincenzo Tanara, nel suo trattato “Economia del Cittadino in Villa”, pubblicato la prima volta nel 1644 e dedicato alle attività  agricole, all’allevamento ed alla produzione del vino, citava esplicitamente le “uve pignole” che venivano coltivate sulle colline della provincia bolognese.
Le tracce della esistenza di un fiorente “mercato del vino” attivo sul territorio emergono anche da un interessante documento ritrovato negli archivi di Stato del capoluogo emiliano, in cui risulta che secondo gli statuti della Compagnia dei Brentatori, cioè dei trasportatori di brente (la brenta era un contenitore di legno per il trasporto di uva o vino), i brentatori stessi dovessero ricevere quattro soldi come compenso massimo per ogni corba di vino trasportata (la corba era un’antica misura di capacità  pari a circa 78,6 litri).
Altre norme concernenti i brentatori, il vino ed il suo commercio erano pure elencate ed incluse nel “Bando generale sopra la tesoreria e Dazio del vino di Bologna suo distretto e contado”, sottoscritto dal camerlengo cardinal Rezzonico nel 1767.
Arriviamo alla fine del XVIII secolo, periodo nel quale, tra l’altro, l’interesse e la domanda di vino da parte del mercato nord-europeo è in continuo aumento; Serafino Calindri, storico e scienziato attivo nel territorio emiliano- romagnolo in quel periodo, riferendosi al mercante Pietro Bignami, attribuiva a quest’ultimo una importante operazione commerciale col brillante risultato di “avere mandati i suoi vini per mare a Roma, a Londra e Amburgo; di avere essi resistito alla navigazione; di essere riusciti di gusto squisito in quei paesi, di averne ricevuto la ordinazione più anni di seguito”.
Ci avviciniamo così ai giorni nostri e giungiamo a quello che è ormai il secolo scorso, in un passato neanche tanto prossimo, quando, esattamente nel 1971, veniva fondato, per volontà  di alcuni produttori, il Consorzio vini Colli Bolognesi, un consorzio volontario che, ad oggi, rappresenta oltre l’80 per cento della produzione della doc “Colli Bolognesi”, denominazione questa riconosciuta, insieme al relativo disciplinare, nel luglio del 1975.
Dieci anni dopo, esattamente il 12 febbraio 1985, un decreto sanciva una modifica del suddetto disciplinare autorizzando l’inserimento del Pignoletto tra i prodotti previsti dalla doc “Colli Bolognesi”, proprio nel momento in cui i produttori di Pignoletto cominciavano a cercare una maggiore visibilità  che andasse oltre la realtà  locale del bolognese.
Nel 1990, una nuova variazione del disciplinare portava all’aggiunta della tipologia frizzante per alcuni dei vini prodotti nell’area e cinque anni più tardi, nel giugno 1995, veniva ratificata, grazie ad un decreto del Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, l’introduzione di sette microzone di qualità  nell’ambito del territorio specificato dal disciplinare di produzione.
Nell’agosto 1997, infine, con decreto ministeriale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, veniva riconosciuta la definizione “Colli Bolognesi Classico” per il vitigno pignoletto.

VITIGNI E DISCIPLINARE
Il pignoletto è una varietà  a bacca bianca ed è considerata autoctona della zona dei Colli bolognesi. Proprio per questa sua caratteristica unica rispetto alle altre varietà  coltivate ed utilizzabili nella composizione degli uvaggi dei vini previsti dal disciplinare e che vedremo più avanti, è considerato in un certo senso il vitigno simbolo del territorio e fino a pochi decenni or sono era praticamente quasi sconosciuto al di fuori di quest’area.
Ecco la descrizione ampelografica del pignoletto, pubblicata sul già  citato sito del Consorzio vini Colli Bolognesi e che riportiamo integralmente.
“La foglia è pentagonale e trilobata, seno peziolare a V ampio, di colore verde cupo, lucida e liscia superiormente, mentre la pagina inferiore è più chiara. Il grappolo è medio, ma compatto o mediamente spargolo, allungato e quasi cilindrico con alatura; mentre l’acino è medio, di forma allungata e di colore verde ambrato. Il tralcio legnoso è lungo, robusto ed elastico, ma poco ramificato e di sezione ellittica; il fusto è di buona vigoria su terreno collinare calcareo, argilloso, molto drenato e ricco di micro e macro elementi che danno al Pignoletto le sue caratteristiche e particolarità  più piacevoli. Il germogliamento è abbastanza precoce, verso la seconda decade di aprile, la maturazione delle uve ai primi di ottobre. L’utilizzazione è solo per la vinificazione. La coltivazione è a cordone speronato e a Guyot, ultimamente ad alta densità  (fino a 5000-6000 piante per ettaro), pur se va detto che anche impianti di 40-50 anni, se gestiti in modo equlibrato, danno vini impeccabili e, anzi, intriganti”.
Il territorio dei Colli Bolognesi si colloca in un area sub-appenninica situata nel quadrante sud-occidentale rispetto a Bologna, capoluogo al quale questa zona è da sempre strettamente legata, sia dal punto di vista storico sia da quello socio-economico, se è vero che per molte famiglie patrizie della città  felsinea i Colli rappresentavano meta di villeggiatura e tutt’oggi dalle vigne del “nucleo storico” dell’area, quello in cui la pianura finisce e comincia la collina, si possono scorgere le Due Torri e la cattedrale di S.Luca, simboli della città .
La zona di produzione comprende i territori di municipalità  della provincia di Bologna, fatta eccezione per una parte del territorio del comune di Savignano sul Panaro, in provincia di Modena. Oltre al comune di Bologna (in parte), la denominazione include infatti: per intero, i territori comunali di Monteveglio, Savigno, Castello di Serravalle, Monte San Pietro, Sasso Marconi, Marzabotto, Pianoro e, solo in parte, quelli dei comuni di Bazzano, Crespellano, Casalecchio di Reno, San Lazzaro di Savena, Zola Predosa, Monterenzio.
I terreni che caratterizzano questa sotto-regione sono di natura varia: si vadai calcari, alle arenarie sino alle argille, in una conformazione che per alcuni esperti ricorda in qualche modo quella dei suoli piemontesi, e in questo contesto è ampia la varietà  dei vitigni coltivati e dei vini che da essi vengono prodotti.
In effetti, forse anche in conseguenza di quanto appena descritto, il disciplinare che caratterizza i vini di questa zona risulta un tantino complicato, annoverando ben nove diversi vini prodotti tra bianchi e rossi (Pignoletto, Sauvignon, Chardonnay, Pinot bianco, Riesling italico, Bianco, Merlot, Barbera e Cabernet sauvignon,) che, tenendo in conto le diverse tipologie previste, salgono a una quindicina, ed aumentando ancora se si vanno a considerare i differenti prodotti ammessi per le sette sottozone riconosciute dal disciplinare stesso e che sono: Colline di Riosto, Colline Marconiane, Zona Predosa, Monte San Pietro, Colline di Oliveto, Terre di Montebudello e Serravalle.
In pratica, per limitarci al solo Pignoletto, oggetto della nostra degustazione, si può notare che il disciplinare prevede oltre al tipo che per comodità  possiamo definire “base” (che però può essere prodotto sia in versione “ferma” sia in versione “frizzante”) un tipo “spumante” (ammessi sia il metodo classico sia quello charmat), uno “superiore” e uno “classico” (o classico superiore); le diverse tipologie possono essere ulteriormente caratterizzate tramite la definizione della sottozona di provenienza ammessa dal disciplinare (come precedentemente elencato) e per alcune sottozone viene data la possibilità  di produrre versioni caratteristiche proprie della sottozona stessa (per esempio, le sottozone Colline Marconiane e Colline di Oliveto sono autorizzate alla produzione di Pignoletto passito).
Il vino Pignoletto viene prodotto con le uve del vitigno omonimo, con l’eventuale aggiunta di uve di vitigni a bacca bianca non aromatici, da soli o congiuntamente, fino ad un massimo del 15%; ha colore paglierino chiaro a volte con riflessi verdolino; l’odore è delicato, caratteristico e, nel tipo frizzante, leggermente aromatico; il sapore è asciutto o amabile, caratteristico, armonico, gradevolmente frizzante nel tipo specifico. La specificazione “secco” o “asciutto” è riservata al vino con tenore in zuccheri riduttori inferiore a 4 grammi per litro. Gradazione minima: 11°. L’uso spesso consigliato è da aperitivo. Nella versione “superiore” deve essere garantita una gradazione minima di 12°.
La versione “classico” prevede l’utilizo di uve Pignoletto (minimo 85%), a cui possono essere aggiunte quelle di Pinot bianco e/o Riesling Italico e/o Trebbiano romagnolo: il vino così ottenuto ha colore paglierino chiaro, con riflessi verdolino; odore delicato, caratteristico; sapore tranquillo, fine. Gradazione minima: 12°. L’immissione al consumo è ammessa solo dopo il 1° aprile dell’anno successivo a quello di produzione delle uve. Lo si consiglia principalmente come aperitivo o da accompagnare al pesce. In questa versione la resa massima per ettaro delle uve deve essere non superiore ai 90 quintali (contro i 120 della versione frizzante, per esempio) e la resa massima dell’uva in vino finito deve essere non superiore al 65% (70% per la versione frizzante).
Le operazioni di vinificazione, imbottigliamento ed invecchiamento devono essere effettuate nella sola zona d’origine.
àˆ necessario anche qualche dettaglio relativamente alla denominazione Igt Emilia, dal momento che, come detto, uno dei campioni inviatoci è stato presentato proprio con questa dicitura. Con tale menzione possono essere denominati i vini prodotti da uve coltivate nelle province di Modena, Bologna (limitatamente al territorio compreso nella zona delimitata “Emilia”; Gazzetta Ufficiale n° 3 del 4 gennaio 1984), Ferrara, Reggio Emilia, Parma, Piacenza. Nello specifico del Pignoletto, il disciplinare igt prevede un impiego di uve pignoletto in percentuale minima del 85%, ed è previsto l’impiego di uve a bacca bianca non aromatiche coltivate nei territori sopraccitati, fino ad un massimo del 15%. Dunque un uvaggio analogo a quanto previsto dalla doc, ma con impiego di uve provenienti in pratica da tutto il territorio regionale invece che dalla zona specifica.

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